Il comune in Borgo

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Comune in borgoScommetto che chi non ha vissuto quei tempi stenterà a crederlo, ma la classe dirigente della Sassoferrato dei primi anni ’50, invece di essere impegnata ad affrontare i mille problemi di un dopoguerra che ancora si faceva sentire e sopratutto la chiusura, prima solo paventata poi purtroppo realizzata, della miniera di Cabernardi, con il suo immenso e prevedibile carico di costi sociali per tutti, andava accarezzando il progetto di trasformare la città edificando il suo nuovo centro in un frustolo di terreno a ridosso della ferrovia, al di là del ponte che portava alla stazione e ai Felcioni.
Era stato il sindaco Castellucci, geometra per studi secondari, ad immaginare quella nuova e brillante collocazione per le istituzioni che da secoli più che degnamente si affacciavano sulla piazza Matteotti: il potere esecutivo con il palazzo del comune ed il potere giudiziario con la pretura mandamentale, i carabinieri ed il carcere. Il progetto fortunatamente non giunse a compimento ma la pretura, il primo edificio del nuovo complesso monumentale, fa ben capire a tutti, credo, quale sarebbe stato anche il suo valore architettonico.
Non so immaginare, ora, quali fossero le percentuali, nel mix che aveva determinato la nascita di un’idea così balzana: spensieratezze, megalomanie, interessi professionali o fondiari, piccolo cabotaggio politico incentrato sulla diversione? Fatto sta che di questo progetto, emblematicamente riassunto dalla locuzione che ho posto a titolo di questa didascalia, si parlò per anni: in Castello con indignazioni, teste scrollate, tessere della DC strappate e lettere di protesta al Segretario nazionale; in Borgo non so, forse fifty fifty tra il sorrisetto sarcastico di Alberto Fata e l’hai visto mai… o il perché no? di qualcun altro più borghegià magna faetta…
Nel 1955 il progetto era dunque ormai al tramonto: non ce l’avevano fatta, i democristiani di Albertino Castellucci, a passare alla storia come i costruttori e gli architetti della nuova Sassoferrato (e dopo aver svuotato e distrutto la vecchia, novelli Nerone), ma c’erano andati vicini e ora tra i fedelissimi serpeggiavano scoramento, per il capo decisionista che usciva indebolito dalla vicenda, e delusione, per i buoni affari che si sarebbero potuti fare.
Il pomeriggio del 20 febbraio di quell’anno era una giornata piovigginosa, ma piazza Matteotti, insolitamente gremita di persone, brulicava di una composta agitazione: si era in attesa che, da dietro la Rocca, issato su un carro bordato di velluto nero e nappi d’argento e seguito da una banda musicale che intonava una marcia funebre, apparisse un simulacro del comune, immaginato da Tonillo e realizzato, con tutto l’apparato di contorno, da Mario Toni. Giunto che fu, tra gli squilli della tromba di Emo Galeazzi, si formò un corteo, in testa al quale si pose un valletto con i pantaloncini a sbuffo e le calzette nere, che sorreggeva, sulle braccia tese, un cuscino mortuario sul quale era artisticamente posato, in grandezza naturale, il battaglio della campana della torre civica. La discesa al Borgo iniziò così, in ordine composto e con passo solenne, mentre Tonillo, che chissà perché indossava un paio di stivaloni in gomma, dava il tempo alla banda e il giusto ritmo al passo della gran massa di popolo che si era posta spontaneamente al seguito dei carri.
Le vie del Borgo furono percorse mestamente, con i cittadini che, richiamati dalla banda, uscivano dalle case attoniti dalla sorpresa, tanto bene il segreto era stato mantenuto, e si univano al corteo, per vedere come sarebbe andata a finire.
Raggiunta la meta, i carri si fermarono e Tonillo, seguito da Italo Rosa, il valletto, si inerpicò sul ripido ciglio fin sopra il campo, alto sulla strada (ora c’è la via che conduce al liceo scientifico ed alle case sovrastanti: è in quel preciso luogo che sarebbe dovuto sorgere il nuovo edificio comunale) e rivolse agli astanti alate parole: dopo tanti malintesi si offriva personalmente a testimone di una nuova volontà di conciliazione; non solo il grandioso progetto non sarebbe più stato osteggiato, ma una nuova e costruttiva collaborazione stava per nascere, aprendo luminose prospettive di concordia e prosperità. Intanto, come prova della nuova disponibilità e sigillo del patto, si degnassero, i borghigiani, di accettare sia il simulacro in scala ridotta del vecchio edificio che, una parte per il tutto, la riproduzione in scala 1:1 del “batocco” della campana civica. E fu a questo punto che, afferrato a due mani dal cuscino l’imbarazzante arnese, lo infisse nel terreno umido con un ampio gesto semicircolare. Rialzatosi, rivolto un fiammeggiante sguardo ai convenuti, terminò il suo intervento consentendo magnanimamente che, in attesa della torre e della campana, ognuno potesse farne l’uso ritenuto migliore.
La sorpresa ed il rumore furono grandi, pari quasi all’irritazione per il neanche troppo larvato doppio senso rappresentato da quell’asso di bastoni dritto verso il cielo, e la memoria di quell’evento, che qualcuno sperò potesse addirittura costituire l’inizio di una tradizione, permane ancora tanto in chi, come me, l’ha vissuta, quanto in chi l’ha sentita solo raccontare.
Il comune fu poi riportato in Castello e giacque abbandonato all’interno della chiesa sconsacrata di san Giuseppe (un luogo dove si sono spesso riposte le cose di cui la comunità non sapeva che fare, perché si degradassero definitivamente, nell’incuria e nella polvere, prima della loro distruzione).

Qualche anno dopo, nel corso di alcuni lavori, degli operai riportarono sulla piazza ciò che era restato dell’opera di Mario Toni, deponendola momentaneamente davanti alla porta dell’osteria della Jenny. Mostrava tutti i segni del tempo, come si può ben vedere, ma noi che eravamo presenti non resistemmo al fascino di farci fotografare vicino al simbolo sbilenco di una performance lontana e indimenticabile, che era stata qualcosa di più di una semplice zingarata*.
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*Su Tonillo (nome d’arte di Nilo Antonio Radicioni) e sulle sue gesta è possibile leggere anche il contributo un poco più esauriente pubblicato nel volume Sassoferrato: 80 anni di sport.
(16 gennaio 2008)
Quasar

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